4. Espressioni/Anche questa è Torino

Uluccialì Pascià a Porta Palazzo

Non mi ricordo se ho letto la storia di Uluccialì Pascià prima o dopo aver trovato la strada della fede vera. All’inizio, quella storia di un corsaro calabrese nella flotta dell’impero ottomano, non mi ha interessata più di tanto. Poi, siccome sono calabrese anche io e anche io musulmana, ho cominciato poco a poco a identificarmi in lui.

Da cristiana mi chiamavo Maria, adesso mi chiamo Mariam. Una lettera di differenza. I miei paesani continuano a chiamarmi Maria e io lascio fare, perché comunque sono solo due varianti del nome della vergine madre di Issa, o Gesù, il beneamato del nostro signore onnipotente. Molti credono che Gesù e Maria appartengono solo ai cristiani. Non sanno che anche noi li veneriamo. Certo non fino a credere che Issa sia figlio di Dio, o, ancora peggio, Dio stesso. Ma lo veneriamo come profeta, uno dei più amati tra i profeti del signore. E Crediamo anche che Maria, sua madre, sia rimasta vergine per sempre e che la nascita di issa dal suo grembo fu un miracolo, un segno della volontà dell’onnipotente.

Ho conosciuto l’Islam nel periodo in cui ho conosciuto Mustafà, il mio marito. Lui era un immigrato senza documenti, povero, senza risorse, ma grande, forte e bello. Mamma mia quant’era bello, il mio Mustafà. Come molti ragazzi senza documenti faceva il facchino alla giornata a Porta Palazzo. Si faceva trovare ogni mattina all’alba al mercato e certe volte montava e smontava i banchi, certe altre caricava e scaricava merce per uno o l’altro dei commercianti o portava consegne ai ristoranti con la carriola. In somma si dava da fare e mio padre lo notò. Era puntuale, lavorava sodo e non protestava mai. Il sogno di ogni piccolo padrone. Presto lo prese con se nel banco come garzone fisso. Di lavoro ce n’era e ce n’è sempre tanto al mercato. Io mi ero diplomata da anni e mi ero stufata dei lavoretti da apprendista e commessa di qua di là. Allora mio padre mi ha detto che potevo venire a dare una mano anch’io. “Così impari il mestiere -mi disse- e con il tempo ti prenderai un banco tutto tuo”. E lì ci siamo conosciuti Mustafà ed io. Io lo notai subito, ma all’inizio me ne stavo lontana perchè lui era comunque uno straniero e io non c’avevo mai avuto a che fare con stranieri. Poi poco a poco diventammo amici e poi molto più che amici. Il nostro rimase però un rapporto casto fatto di occhiatine, sorrisi e parole dolci. Lui era molto timido. E credo anche molto impaurito dalla mia numerosa famiglia. Io sono sempre stata credente e praticante come mia madre e prima di lei mia nonna. Ero decisa ad arrivare pura al matrimonio.

Le malelingue dei miei compaesani dicono che se non fosse per i documenti un bel ragazzo così non avrebbe mai guardato una come me. Dalla parte marocchina si dice che se io non fossi brutta, bassa e grassa  non avrei mai nemmeno guardato un povero facchino marocchino senza documenti come lui. Noi due sappiamo che il nostro è (o almeno è stato) amore vero. Passavamo pomeriggi interi a parlare. Lui mi raccontò la sua storia, il percorso per arrivare fino a Torino… poi mi mise al corrente della sua decisione di smettere di bere e di cominciare a frequentare la moschea. Io lo incoraggiai fortemente e gli chiesi di parlarmi dell’Islam. Mi innamorai di lui e dell’Islam credo nello stesso momento. E quando lui mi propose poco prima del matrimonio di diventare anche io musulmana, accettai senza esitazione.

Ho riabbracciato la fede vera un giorno di primavera, poco prima del nostro matrimonio. Mi misi il hijab subito, sfidando famiglia e vicinato. Sono passati più di quindici anni, la nostra prima figlia Aya è una signorina ormai e io lo tengo ancora. Mi vesto sempre con una tunica lunga coprente e un velo annodato intorno alla testa e al collo senza far vedere nemmeno una ciocca di capelli. Uso solo il nero e il grigio e al limite il bianco per il velo. Niente colori accesi, niente trucco, niente gioielli. L’imam di allora è stato molto chiaro: “la donna musulmana deve coprirsi per bene e non incitare il desiderio maschile in nessun modo, anche i colori, il trucco, i gioielli sono fitna”. E io su quella strada sono rimasta.

Oggi il clima a Torino è cambiato tanto. Gli imam puri e duri sono stati mandati via. Questi di adesso sono molto più morbidi. Non insistono sull’obbligo del velo. Lasciano che sia ‘una scelta libera’, dicono loro. Ma che libertà ci può essere di fronte alla volontà di Dio? Da quando la moschea ha abbandonato il suo ruolo di guida, le cose stanno andando allo sfacelo qui. Sempre meno gente va a pregare. Nemmeno il mio Mustafà ci va ancora. Ha anche ripreso a bere. Certo sta sempre con quel mascalzone di Andrea, mio fratello. Pare vadano anche a puttane insieme. Che Iddio ci protegga dal demonio.

E le donne… Le donne quasi non portano più il velo. Qui, prima era bellissimo. Ci riconoscevamo tutte come sorelle perché eravamo tutte vestite secondo il dettame divino. E se una non se lo metteva, tutti le mettevano la pressione addosso fin al cedimento. Eravamo una comunità unita e disciplinata. C’era solo quella disgraziata di Saadia a resistere: l’unica donna magrebina di tutta Porta Palazzo che non ha mai coperto i suoi capelli. Continuava a portare quella sua chioma nera e riccia libera da ogni ostacolo, come un insulto a tutta la Umma dell’Islam. Dopo vari tentativi, pressioni, insulti. Tutti hanno deciso di lasciarla stare. Nessuno l’ha più frequentata. Ma siccome era l’unica, i clienti del mercato non pensavano nemmeno fosse marocchina, credevano fosse brasiliana o qualcosa del genere. E a noi stava bene così. L’unità era salva.

Poi una mattina torrida di agosto, l’anno scorso, ho visto Sagìa, la ragazza che ha il banco di frutta accanto al mio, arrivare al lavoro tutta leggera, vestita con jeans e maglietta. E sulla testa aveva solo… un berretto da baseball.

Basta – ha detto vedendo il mio stupore- non lo sopporto più. Non posso stare sempre qua io a sudare come una bestia sotto quel tendone mentre tutte stanno belle fresche.

Tutte chi? -risposi io cercando di tenere la calma- Tutte chi? Credi che io non sudo? Credi che io non abbia voglia di buttare tutto via e mettermi in costume? Ma non si tratta di ciò che ci piace o non ci piace. Qui è in gioco la volontà di dio.

Ma che volontà di Dio? Io sono sempre stata musulmana e lo resto. Ma questa cosa, prima di arrivare in questa città, non l’avevo mai indossata. Io in Marocco mi vestivo sempre così. Come mi vedi adesso. E poi se non te ne sei accorta, tu sei l’ultima a portare un hijab così rigido. Guardati un po’ in giro. 

Era come se m’avesse dato uno schiaffo. Mi resi conto che Chafia, quella del banco a destra aveva iniziato da tempo a mettere delle gellaba marocchine di vari colori e un foulard annodato dietro la nuca lasciando tutto il collo libero. Tre o quattro altre ormai si mettono vestiti all’occidentale qualcuna ha anche questi jeans a vita bassa che vanno di moda adesso, con le mutande a vista, e tengono solo il foulard bianco, quasi come un semplice segno di riconoscimento. Altre non hanno nemmeno quello. Persino le due venditrici di pane arabo, giù vicino al mercato della carne, si sono messe pantaloni e camicie e una sembianza di foulard sotto i loro berretti da baseball. Berretti da Baseball! Ché stiamo forse per creare la prima squadra di baseball femminile marocchina? Proprio qui a Porta Palazzo? Da quel giorno iniziai a guardarmi in giro per la città, anche fuori dal nostro quartiere. Notai un sacco di donne marocchine senza velo. Le egiziane resistono di più. Non ne ho incontrate di svelate ancora. Ma tra la popolazione marocchina è un vero disastro.

É da quando ho notato questi cambiamenti, che ho ricominciato a pensare a Uluccialì Pascià. Lui, un calabrese della provincia di Crotone, e che come me ha ritrovato la via della vera fede, è stato l’ultimo Rais delle navi Corsare dell’impero ottomano a restare in piedi alla fine della battaglia di Lepanto contro la flotta cristiana. Io Mariam, della Provincia di Cosenza, giuro che se rimarrà una sola donna velata a Torino, quella donna sarò io!

7 thoughts on “Uluccialì Pascià a Porta Palazzo

  1. Grazie!
    Penso che se i poteri non si auto-coservassero questo racconto mi ricorderebbe libri di scuola invece di ” cristiani di allah ” di Massimo Carlotto.

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    • Grazie a te Valeria
      Non capisco cosa intendi con “se i poteri non si auto-conservassero”.
      Adesso che me lo ricordi è un po’ come “I Cristiani di Allah” di Carlotto: la narrazione in prima persona, i corsari…
      Ma sarebbe proprio il percorso contrario. Carlotto fa fare il percorso verso l’Islam in cerca di una libertà che il cristianesimo troppo rigido e omofobo non concedeva. Invece qui è il percorso contrario. Si va verso un islam rgido in cerca di disciplina e rigore, scappando da una società considerata troppo permissiva.

  2. La storia di Uluc Alì, stupenda, è molto complessa e singolare. Da calabrese, cosentino, amo molto il personaggio. Bello che qualcuno se ne ricordi.

    • Carissimo Enzo,
      Intanto contento di riavere tue notizie.
      Sì è ancora tutta da narrare la storia dei “rinnegati” del sud europa che erano l’essenziale della flotta delle città ottomane del Nordafrica (Algeri, Tunisi e Tripoli). E’ un capitolo credo tenuto nascosto perché imbarazzante per tutte e due le parti. Qui imbarazza perché racconta quanta disperazione c’era nei contadini e pescatori poveri che li portava ad andare a fare i corsari dall’altra parte della barriera. Imbarazzante per l’altra parte, perché rompe un po’ il mito della flotta ottomana punta di ferro dell’Islam vincente e si capisce che era solo una schiera di pirati liberi professionisti che erano convertiti solo formalmente, ma ai quali alla fine della religione non fregava niente.

      • Ya Karim, contento anche io di sentirti.
        pensa che su questo argomento ho fatto la mia tesi di laurea, nel lontano 1997… Non a tutti i c.d. “rinnegati” non fregava nulla della religione, inoltre, l’islam turco del XVI-XVII secolo era in sé qualcosa di diverso da quello che pensiamo oggi. Ma hai ragione su un punto: quella storia, nonostante alcune pregevoli opere, è sostanzialmente ancora da scrivere. In Calabria, comunque, c’è una statua di Uluc, nel suo paese natale, Cutro. Sogno sempre di avere il tempo per scrivere un romanzo su di lui… o magari un film.

      • Anche a me ha sempre affascinato la storia della città di Algeri di quelli anni.
        Queste persone che sono così “borderline” decisioni così forti da portare a combattere contro il proprio “campo”. O forse la presa di coscienza che quello che ti dicono tutti di essere il tuo campo, così tuo non è.

  3. Inversi ma fughe alla ricerca di sopravvivenza e di una “felicità magari”.
    Sia i rinnegati di Massimo Carlotto sia i personaggi del tuo racconto ristrutturano la propria identità perchè vinti da forze esterne.
    Oggi come allora siamo popoli tenuti all’oscuro di quanto ci accade.
    Anche tramite la scuola.
    Credo che un altro sguardo, di spudorato amore verso la reciproca comprensione e responsabilità, è quello di Alan Bertho ( http://berthoalain.wordpress.com/about/ ) : diretto a segnalare quei tentati percorsi collettivi di cambiamento dell’ordine precostituito. Contro un potere che reprime consapevolezza e giustizia, autoconservandosi.

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