1. Le parole sono importanti!

Report dall’Interregno nel giorno della sepoltura di Giulio Regeni

Di Pina Piccolo

Oggi, 12 febbraio è difficile non attribuire il grigiore atmosferico ad un’antropogenica tristezza per il fatto che il corpo martoriato di Giulio Regeni sarà sepolto, cioè diviso definitivamente dalla comunità dei vivi. E’ una separazione che fa male perché equivale anche ad ammettere la perdita di un giovane che aveva saputo tenere rotta nelle acque infide dell’Interregno. Cosa rara questi giorni.

Su un bigliettino lasciato sulla cancellata davanti alla chiesa da un amico o un’amica c’era scritto, “Non c’è pace senza giustizia”, un discorso ripreso dal prete che ha officiato il funerale, e questo mi ha fatto venire in mente le grandi manifestazioni di Oakland, contro il razzismo, di solito organizzate in seguito a qualche uccisione di afroamericano da parte della polizia, in cui uno degli slogan più ripetuti da manifestanti di tutti colori, generi ed età era “No justice? No peace!” in cui l’interlocuzione era in mano a chi si ribellava, e che dichiarava al Potere quali erano le condizioni che dettava. Infatti , sempre nello stesso filone, esiste anche l’espressione “to speak truth to Power”, cioè dichiarare la verità al Potere e sia il bigliettino, il prete e l’atteggiamento dei genitori di Giulio che hanno rifiutato i funerali di Stato e la presenza di vessilli, esortando i partecipanti a venire in qualità di esseri umani, mi pare stiano nello stesso solco. “No justice! No peace!” e “Speak truth to Power” fanno parte di tutta una serie di dispositivi linguistici che si sono maturati durante le lotte contro le guerre imperialiste USA, le lotte contro il razzismo e durante i movimenti contro le ripercussioni di NAFTA che hanno condotto a una globalizzazione di stampo neo-liberista e che hanno raggiunto l’apice nelle manifestazioni di Seattle e di Genova, di fine ed inizio millennio. Giustamente questa è stata l’impostazione seguita per il distacco da un giovane che apparteneva a una generazione posteriore alle grandi stagioni delle ideologie organizzate in partiti e che forse captava lo spirito internazionale di giovani in cerca di conoscenza e giustizia che oggi posseggono mezzi e modalità diversi da quelli delle generazioni precedenti.

Sempre seguendo questa scia dei dispositivi linguistici della resistenza, la poeta e saggista femminista Adrienne Rich parlava della necessità di fare riferimento a un “moral compass” cioè una bussola etica che facesse da guida in tempi incerti. Trasformando questi tempi incerti nella nozione gramsciana di “interregno” tanto cara al giovane studioso friulano, si potrebbe pensare ad uno strumento che ci aiuti a districarci trai vari “sintomi morbosi” che appaiono durante i periodi di crisi quando un sistema sta per morire ma il nuovo ancora stenta ad emergere.

Giulio si era dato da fare per approfondire la conoscenza dei sindacati in Egitto, analizzare i cambiamenti che avevano attraversato dalla stagione delle primavere arabe ad oggi. Non era semplicemente uno studioso poltroniere, si era esposto partecipando ad assemblee di sindacati che reclamano cambiamenti radicali, in un certo senso apparteneva a quella schiera di persone che non si erano rassegnate, come anche Shaimaa el Sabbagh, la poeta ed attivista sindacale uccisa dalla polizia il 25 gennaio di un anno fa mentre portava rose rosse a piazza Tahrir per commemorare l’anniversario delle sollevazioni in Egitto nel 2011.

L’interregno tra i continenti che si affacciano sul Mediterraneo

Ma come mantenere la rotta nel “nostro” calderone locale dell’attuale interregno? Mentre il “calendario” dell’Interregno che ci riguarda più da vicino negli ultimi tre mesi segna a novembre gli attentati a Parigi, seguiti da quelli in Tunisia, poi a gennaio i cosiddetti “fatti di Colonia”, quindi gli attentati in Mali, seguiti poi dalla sparizione ed uccisione di Giulio Regeni, la cartina mostra una parte sud (tutto il nord-Africa e il medio oriente) e la parte nord, che ironia della sorte, inizia dal “nostro” estremo sud, il Canale di Sicilia, il mare Egeo (questi abitati da popolazioni che nel caso dell’Italia non hanno eletto gli ultimi 3 governi democratici, e che nel caso della Grecia sono state le vittime sacrificali delle politiche di austerity etc.) Dalle collisioni tettoniche dei tre “mondi”, dallo scontro dei tre buchi neri le onde gravitazionali arrivano da un lato in tutta Europa, e dall’altro si irradiano a sud verso l’Africa. Quindi le manovre di Boko Haram in Nigeria e in Camerun e a est invece verso la Turchia, con tutto il suo carico di conflitti e contraddizioni.

speculum

Ognuno di questi sviluppi meriterebbe analisi approfondite, ma quello che a livello personale mi è sembrato il più difficile da decifrare e il più infido per quanto riguarda sia l’interregno che la famosa bussola sono i cosiddetti “ fatti di Colonia” ed è per questo che su di essi mi vorrei soffermare. Ho letto numerosi articoli, sia nella stampa estera che in quella italiana, ma molti elementi continuano ad essere coperti da ombre che forse si schiariranno solo tra 20 o 30 anni. L’articolo che forse mi ha colpito di più per lo sforzo di articolare una posizione di spessore, in gran parte riuscito, ma che , d’altro canto, mi ha lasciato perplessa in alcune parti. è quello apparso nel settimanale Internazionale Speculum, l’altro uomo. Otto punti sugli spettri di Coloniaa firma di 4 femministe storiche italiane. Vorrei esaminarlo da vicino, perché oltre ai contributi analitici molto positivi sono convinta che contenga dei passaggi che richiedono un aggiustamento di rotta. Mi permetto di fare queste osservazioni perché pur non facendo parte di movimenti femministi ne riconosco il valore e ritengo che spesso ci troviamo nello stesso lato della barricata e abbiamo, quindi, interesse a cercare di districarci insieme nelle paludi dell’interregno. Inoltre, per quanto riguarda l’età, facendo tutte parte della generazione delle “madri” se non delle nonne è il minimo che possiamo fare, mettere in campo la nostra esperienza e conoscenza, anche per rimanere sullo stesso sentiero su cui continuano a viaggiare tanti altri giovani donne e uomini come Shaimaa el Sabbagh e Giulio Regeni.

I “fatti di Colonia” e il tentativo di arruolare le donne nello scontro di civiltà

L’analisi iniziale del saggio parte molto bene, focalizzandosi sugli effetti dei “fatti” sull’immaginario europeo, sia sugli uomini che sulle donne, la sua capacità di evocare spettri coloniali, da un lato, e le più retrive giustificazioni da parte di uno degli imam di Colonia, dall’altro. Anche se non è messo molto in evidenza nel saggio, questi spettri riguardano sia l’immaginario maschile che quello femminile, basti pensare alla vicenda della tredicenne tedesca che, dopo i fatti di Colonia, ha denunciato il sequestro e lo stupro da parte di uno “straniero”, sguinzagliando una caccia al responsabile, solo per ritrattare in seguito, quando sotto interrogazione la sua storia non teneva (cioè ha confessato di aver passato le due giornate a casa di un amico suo connazionale ma non voleva dirlo alla famiglia). Il saggio arriva a identificare in maniera molto efficace il tentativo di “arruolamento delle donne nella difesa della civiltà occidentale suddetta, con relativa messa all’indice delle disertrici” che sono poi vengono enumerate nelle loro varie tipologie. A mio parere, i problemi maggiori si manifestano dal paragrafo “Streghe” in poi e penso siano legati a problemi di interlocuzione. Cioè, le scrittrici si sentono parte di una fauna braccata dal media, prima si mettono sotto accusa gli “stranieri” – l’uomo nero – poi la “femminista bianca” , “rea di tacere, di nascondersi, di non condannare, di colludere con i migranti e con la sinistra che difende (difende!) i migranti, di rompere le scatole ai “suoi” uomini per qualunque quisquilia come fosse una barbarie e di chiudere gli occhi sulle nefandezze dei barbari “veri”. Da questo punto in poi si avverte nella scrittura che il saggio è stato motivato da uno stimolo esterno, cioè quello di dare una risposta a pungolamenti provenienti dai media di destra. Quindi, sedotte dal canto della sirena di tali media, le autrici entrano nella impostazione della questione delineata da questi ultimi, nel “frame” che essi forniscono, si mettono sulla difensiva ed accettano di assumere il ruolo della “femminista bianca”, scivolando quindi in un territorio infido in cui è facile “to speak truth with Power” invece che “to speak truth to Power ( cioè dialogare con il Potere invece che dichiarare la propria estraneità ad esso mentre se ne denunciano le nefaste verità.

In diversi paragrafi le autrici continuano con un’analisi molto lucida:

“C’è una generalizzata crisi del patriarcato che ovunque, a ovest e a est, a nord e a sud del mondo perde il credito femminile. Con buona pace delle fantasie alla Houellebecq, la sottomissione femminile non è più garantita né sotto le insegne dell’islam né sotto quelle cristiane o di altre religioni. E la libertà femminile non passa solo per le magnifiche sorti e progressive della democrazia laica.” […] con la conclusione “Ci dissociamo perciò nettamente dal coro noir che ha accompagnato sui mezzi d’informazione italiani ed europei i fatti di Colonia. La voce delle donne, quando la si ascolta e non la si mette a tacere, racconta una realtà ben più articolata di quella di una regressione generalizzata al patriarcato tribale degli uomini ambrati e barbuti che dal Medio Oriente allunga la sua ombra minacciosa sulle donne europee. La diagnosi andrebbe piuttosto ribaltata.”

L’onere della difesa della libertà femminile

A questo punto, però, il condizionamento dell’interlocuzione si fa sentire, e si manifesta soprattutto nel paragrafo

“Sappiamo altrettanto bene che le migrazioni non risolvono ma moltiplicano il problema dei rapporti fra i sessi. Ci si attribuisce oggi l’onere della prova che per noi la difesa della libertà femminile viene prima del buonismo sulle politiche dell’accoglienza Rimandiamo questa richiesta ai suoi mittenti.”

Qui non si capisce bene perché le scrittrici accettino di farsi dettare le condizioni dalla stampa di destra che imposta una specie di scaletta secondo cui “per le femministe la libertà delle donne deve venire prima della solidarietà (buonista!)” e, forse non a caso, da questo punto in poi l’ analisi incomincia a perdere quella famosa bussola di cui si parlava all’inizio, accennando a presunti avvertimenti lanciati dal femminismo (a chi, alle istituzioni, ai media?) riguardo la natura sessuata della migrazione,

“Non siamo state certo noi a parlare, per anni, di migranti e di rifugiati in modo neutro, come se la condizione di migranti o di rifugiati cancellasse la differenza sessuale. Non la cancella, e non ci volevano i fatti di Colonia per accorgersi che l’accoglienza e la cosiddetta integrazione non sono due pranzi di gala. Non ci volevano i fatti di Colonia per accorgersi che norme e consuetudini delle comunità straniere fanno quasi sempre a pugni con le nostre, che le difficoltà di integrazione spesso le irrigidiscono ulteriormente inasprendo la segregazione femminile al loro interno, che le donne sono sempre, in pace come in guerra, posta in gioco di uno scambio sociale che gli attriti culturali rendono arduo e talvolta impraticabile.”

Nonostante l’iniziale presa di posizione secondo cui la crisi del patriarcato in tutto il mondo che non mette le donne europee in una posizione privilegiata, le autrici ora cadono nella trappola dei “nostri costumi” rapportati ai “loro” con i quali presumibilmente farebbero a pugni (tutto questo in contraddizione con il paragrafo in cui dichiaravano la complessità osservata nei loro contatti con il mondo della migrazione). Pur riconoscendo che ci sono particolarità legate al genere nell’esaminare tutta al questione della migrazione/fuga (tra cui anche la femminilizzazione della migrazione proveniente da alcuni paesi) credo che ai fini di non essere depistati nell’interregno sarebbe importante impostare la cosa non con gli occhi di “una femminista bianca” come demandato dalla stampa ma con quelli di un essere umano nella sua completezza. Dico questo anche perché sono sensibile alla questione avendo vissuto la maggior parte della mia vita negli Stati Uniti, paese nel quale sulla questione delle “femministe bianche” e il loro rapporto agli altri tipi di femminismo ci sono state delle lotte cruente, che guarda caso, oggi si manifestano in maniera grottesca nell’attacco di tali femministe storiche a livello elettorale, con l’avvertimento che chi non vota per Hilary Clinton tradisce il proprio genere.

Non so se è da attribuire al fatto che continuano a parlare come femministe bianche,, ma in diversi punti del saggio, prevale una visione un po’da esterne, da spettatrici della migrazione, che valutano se essa convenga o no alle donne, a prescindere dalle scelte concrete che il mondo reale mette davanti alle persone. Un po’ come negli scorsi anni le analisi del PD che valutavano, per gli autoctoni, se gli immigrati convenivano o no. Una specie di “cost-benefit analysis” in cui da una parte della bilancia si mette il rischio che una volta arrivata in Europa la donna venga relegata a un isolamento dovuto alla sua vulnerabilità nello scambio culturale ma nell’altro piatto non viene mai enunciato chiaramente che bisognerebbe mettere l’altissimo rischio di morire sotto i bombardamenti di una qualche potenza (comprese quelle scatenate dall’Europa) o soffrire la fame in un paese non esattamente ricco, o non avere prospettive di futuro (come accade oggi per i giovani e le giovani italiani). Questi “business plan” si adattano molto bene ai formulari “di bandi per progetti UE per gestire i flussi migratori” ma sono distanti anni luce dalla situazione in cui versiamo. Cioè leggendo questi paragrafi faccio fatica a sentire il sangue, la paura e la tragedia di intere famiglie che scappano dalla Siria, dalle zone curde, dagli stati africani minacciati da Boko Haram e da altri luoghi su cui infierisce la guerra e le dittature, famiglie che scommettono insieme, uomini, donne e bambini uniti sull’acquisto di posti su un gommone per sfuggire alle bombe che gli cadono addosso, bombe fabbricate nel fiorente nord est italiano e forse confezionate da una solerte manodopera femminile italiana, quelle mani mai oziose, presumibilmente dedite alla cura. Non si sente il dramma di ragazzi e ragazze che scappano dall’Eritrea per non dover fare il servizio militare a vita, ragazze coscritte che forse sono affette da quelle sindrome distonica denominata Rit Les per cui camminano e marciano all’indietro e magari scappano insieme a un fratello o a un cugino, e potrebbero essere cristiani come pure islamici, cristiani, ebrei o animisti. Cosa fare poi di queste persone che arrivano in gruppi familiari misti alcuni dei quali hanno anche fedi miste. Come separare la buona dal cattivo (in inglese da “wheat from the chaff” cioè il frumento dalla crusca); in base alle differenze di genere? Donna e ragazza buono- uomo e ragazzo cattivo? Fa parte dell’interregno questo mescolarsi in maniera inestricabile di diverse questioni che non si prestano ad essere “evase” con facilità. Certo non sono pranzi di gala, come suggeriscono le autrici, ma non lo sono principalmente per chi arriva (potrei anche sbagliarmi, ma il tono dell’articolo a questo punto mi suggeriva che il fastidio dell’integrazione” gravava più sulle italiane e gli italiani]. A differenza del turista del Grand Tour, chi arriva come migrante/rifugiato/a non è necessariamente affetto dalla sindrome di Stendhal nei confronti dell’Europa e dei suoi costumi (scusate la veemenza, ma mi è capitato diverse volte nella mia vita di vestire i panni di chi viene gentilmente o meno invitata ad adattarsi al luogo d’arrivo, al paese che ospita- una delle perle linguistiche che riassume efficacemente la questione è l’affascinante motto statunitense “America: love it or leave it”). A parte che nella realtà, quando si parla di integrazione, bisognerebbe specificare di integrazione in quale tipo di cultura italiana parliamo- quella clientelare, quella mafiosa, quello del “made in Italy?, delle passarelle di Milano e di Firenze popolate da rachitiche ragazze dalle espressioni vampiresche insignite dell’etichetta di “belle” nell’immaginario femminile e maschile europeo? Parliamo forse del trasformismo politico che caratterizza l’Italia nei 150 anni e passa della sua esistenza in quanto stato “moderno”? Culture che ci portano poi alle situazioni grottesche di rifugiati fatti sfilare sulle passarelle di Pitti Uomo in nome di una presunta integrazione ( e probabilmente con i soldi di progetti finanziati dalla UE, per non parlare delle vicende del business dell’integrazione sulla pelle dei migranti a tutte le latitudini del paese? Siamo chiaramente in un territorio irto di quelle sindromi morbose di cui parlava Gramsci, e bisogna riconoscerle nella loro salsa italiana.

In questo scenario, la parte più vulnerabile è costituita forse dai 10,000 minori non accompagnati, di ambo i sessi che chissà dove sono finiti, ma probabilmente non in amorevoli mani maschili o femminili. Specialmente considerando che gli italiani sono al primo posto nella classifica mondiale per turismo sessuale (le donne italiane non si sa).

Femminismi e manicheismi

Proseguendo nella stessa vena, le autrici ci esortano a considerare che,

“è dal versante maschile dei migranti che emerge il problema di una minaccia violenta alla convivenza sociale. Sono più uomini che donne a reagire aggressivamente all’urto dell’impatto con i paesi d’accoglienza. E sono più donne che uomini [e qui non si può non notare un nostalgico richiamo a un classico degli anni 80 del movimento femminista italiano] – si pensi alle migliaia di badanti che vivono e lavorano in Italia, o alle donne che lavorano nei centri d’accoglienza o nella mediazione culturale o nell’insegnamento delle lingue ai migranti – a occuparsi della cura della vita e delle relazioni fra mondi diversi, continuando l’opera femminile della civiltà che la violenza maschile nasconde e disfa.”

Qui devo confessare che l’analisi diventa molto manichea, da prontuario della Grande madre. Nel senso che dubito fortemente che queste amorevoli curatrici siano tali perché l’essere femminile è preposto per destino biologico alla cura e intessere relazioni, cioè sta scritto nel mitocondrio ereditato dalla madre, ma trattasi invece di donne, principalmente dall’Est Europa negli ultimi 30 anni ( e prima, dagli anni 50 e 70 del novecento, dal Corno d’Africa), che facevano i mestieri e le professioni più diverse nel proprio paese, avevano una grande varietà di interessi oltre che prendersi cura delle proprie famiglie- il doppio turno che caratterizza tutte le società- ma che in seguito al disfacimento di quelle società con la caduta dell’URSS si sono inventate una soluzione ai propri problemi economici venendo in italia. Il lavoro che passava questo convento era quello di prendersi cura di una popolazione invecchiata, risolvendo il problema per lo stato italiano, che con grande non chalance trasferisce il problema demografico alle singole famiglie che trovano soluzioni individuali più economiche di quanto costerebbe con una infermiera italiana. In tutto questo, naturalmente non viene calcolato, che in gran numero delle donne che si prendono cura dei vecchi italiani e che, nei ritagli di tempo, stirano forse anche qualche camicia ai mariti delle figlie, sono affette da quella che è chiamata “la sindrome italiana” cioè una depressione specifica causata dall’aver dovuto abbandonare il proprio paese, la propria famiglia, non poter crescere i propri i figli o assistere i propri genitori. E di questo dolore non ho mai visto nessuna associazione occuparsi. Del dolore della turista tunisina a cui maschietti italiani del bar nella provincia romana hanno strappato il velo non si è sentito molto parlare dalle voci preposte a parlarne in un “buon italiano”. Di questa differenza legata al genere non se ne parla.

Anche se si sta parlando dei fatti di Colonia, sotto la rubrica dedicata alla “minaccia violenta alla convivenza sociale” le autrici avrebbero potuto spendere qualche riga alla violenza esercitata dagli stati europei verso gli uomini e le donne stranieri nei Cie, negli sgomberi delle varie “jungle”, nei reticolati innalzati a difesa dell’Europa. Ma evidentemente, questa non costituisce una grave minaccia per la coesistenza civile.

Il paragrafo si conclude con l’osservazione che

“Questa – cioè la continua creazione della civiltà da parte della donna- almeno è una buona notizia; e non è l’unica, se solo guardiamo a quello che sta accadendo considerando le donne come soggetti attivi, e non come oggetti passivi, del cambiamento in corso.”

Questo è davvero auspicabile, ma ricordandoci del monito dell’ anonimo amico o amica di Giulio che non c’è pace senza giustizia, passa anche dalla nostra responsabilità di considerare come soggetti attivi anche le donne che, nonostante il mitocondrio materno, stanno dall’altra parte della barricata, a tutti i livelli politici e a tutti i livelli amministrativi ed economici. (questo per fare finta di non vedere che a livello culturale, la più agguerrita ed eloquente saostenitrice dello scontro di civiltà in Italia è stata una donna, Oriana Fallaci , come negli stati uniti la sua equivalente in ferocia è Ann Coulter).

E infatti, oggi, 12 febbraio, data dell’interregno in cui è stato seppellito Giulio Regeni, dottorando in economia è una donna, Cristine Lagarde ad essere a capo del Fondo Monetario Internazionale, è una donna Angela Merkel a governare il paese europeo più potente che impone i propri dettami di austerity neoliberisti su interi paesi costringendoli alla fame, costringendo le famiglie ad abbandonare i figli davanti alle chiese perché non li possono sfamare, ed è una ministra, per essere precisi quella della difesa Roberta Pinotto, che oggi ancora una volta ha lanciato l’appello per l’invasione delle coste libiche per difendere i pozzi dell’Eni. Quindi, per i rispetto dovuto alla ricerca di conoscenza e di giustizia per cui sono morti i “nostri” giovani Shaimaa el Sabbagh e Giulio Regeni esorterei a cercare insieme un approfondimento della lettura del reale che ci circonda, scegliendo come interlocutori non i media di destra ma le persone reali che dimorano e affondano, una a fianco all’altra, in questo pantano dell’interregno.

1 thoughts on “Report dall’Interregno nel giorno della sepoltura di Giulio Regeni

  1. Rispondo per la prima parte della preziosa riflessione di Pina Piccolo, laddove si ferma la luce su una catena di repressione (ed eliminazione) oggettiva per gli intellettuali che scendono e vivono il dissenso all’allegro libero scambio di mercato “tutto per me e nulla per te”, l’ecatombale luccichio della repressione tramite la povertà . Sono luccicanti i nomi che si usano per definire chi vuole comandare sui patrimoni umani, non solo su quelli economici e il NAFTA o il libero globalismo economico o il riformismo populista sono le generalità distintive dei molti figli ereditieri del colonialismo economico. E nessuno se ne frega, altrimenti si sarebbero già estinti. Luce buia allora su Giulio R. e Shaimaa al S. Luce buia per chi come loro contrasta l’abominio della servitù travestita da riformismo liberale che è già arrivata negli Stati europei più ottusi alla rivendicazione dei propri diritti civili. Gli attivisti per i diritti civili dei lavoratori, come Giulio R e Shaimaa al S. sono un ingombro, una indisciplinata singolarità che non si riduce facilmente nel silenzio della folla servile e paurosa. Ed è ingombrante anche il pensiero, che come tante vittime “di stato”, scritto con la esse minuscola, non ci sarà per loro giustizia, visto come sono bravi i servizi investigativi italiani a puntare le luci sulla verità contro alleati economici. Pecunia non olet, nemmeno sui cadaveri torturati, (che sono sempre figli degli altri, che ce ne frega a noi, che teniamo già così tanti guai a cui pensare….)

Lascia un commento