1. Le parole sono importanti!

Elogio delle radici e critica del metaumano

E’ una metafora che si direbbe fin troppo abusata, quella delle “radici”. Ma se questo accade evidentemente esiste in ognuno di noi un sentimento, una sensazione che non sappiamo descrivere se non in termini di un legame del tipo di quello di una pianta con un suolo, con una terra. Non so’ se si tratti di un rapporto ancestrale con la terra che la razza umana ha sviluppato a partire della rivoluzione neolitica, e quindi dal momento stesso in cui l’uomo ha iniziato a costruire i primi embrioni di vita in società. Non ho le conoscenze dei concetti per descrivere meglio di quello che sto tentando di fare.

Dato che é la terra che mi ha suscitato questa intuizione, riparto da questa. E’ stato in particolare la visione di un film-reportage di Marie-Monique Robin (che ho avuto il piacere di ascoltare dal vivo al Parlamento UE alcune settimane fa) che consiglio a tutti: Les moisson du futur (spero che venga presto tradotto anche in italiano!).

Ne traduco e parafraso un estratto:
“La terra é la chiave. La sua struttura, il suo colore scuro, il suo odore di bosco, segni questi che si tratta di un suolo vivo, che accoglie cioé la vita di piante e microrganismi vari. Questo tipo di suolo presenta una struttura con radici molto sviluppate; poiché non sono state nutrite artificialmente con fertilizzanti chimici, le piante hanno dovuto battersi con il terreno per trovare le sostanze nutrienti di cui hanno bisogno sviluppando radici”.

Ed ecco l’intuizione. L’uomo della società industriale e post-industriale é questo, secondo me. Un uomo che per vivere o sopravvivere é portato a fare affidamento soltanto su stimoli esterni, e non ha pertanto alcun bisogno di svilupparsi dentro, dietro e sotto di lui. Non ha bisogno o non é più in grado di sviluppare radici, di costruire legami sociali profondi con la propria famiglia, con i propri amici, con la propria comunità. Puo’ essere trasportato, traslato, impiantato ovunque, per lui ogni luogo é lo stesso. E’ imprenditore di sé stesso, puo’ quindi sempre delocalizzarsi. E’ l’uomo che emigra senza sentirsi un e-migrato, che non sente la mancanza perché non ha niente e nessuno di cui sentire la mancanza, poiché non ha bisogno di nessuno e probabilmente nessuno ha bisogno di lui. E’ l’uomo che pensa di non aver bisogno di radici, ma che prima o poi si trova ad interrogarsi sul proprio dissesto idrogeologico.

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Per motivarvi ancora un po’ a guardare il film, eccovi qualche un altro piccolo estratto e una mia sottolineatura personale.

“Il ventesimo secolo é stato quella della chimica, e lo é stato in modo particolare nell’agricoltura; il ventunesimo secolo sarà quello della biologia: senza la microbiologia e la conoscenza dei processi biologici del suolo non potremmo coltivare in maniera efficace e sostenibile nel futuro”.

Un accento particolare va posto sui processi.
Nel futuro, oltre che preoccuparci di produrre cibo a sufficienza per tutti (fatto questo enunciato anche oggigiorno come in ogni altro periodo o epoca del passato), dovremmo preoccuparci di produrne in maniera sostenibile e duratura per il sistema vivente della terra, tenendo conto nelle nostre previsioni sulla produzione non le “condizioni ottimali” (uno dei più grandi artifizi della non-scienza economica), ma le condizioni estreme; un’agricoltura sostenibile deve garantire una produzione anche nella peggiore delle situazioni reali e soltanto un’agricoltura biologica – che cioé imita e tiene conto dei processi biologici per il proprio sviluppo – puo’ garantire questo.

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