5. Letture d'altrove

Se l’anima s’innalza… con l’ascensore (forse non raggiunge il cielo, ma si può godere un bel panorama dall’ultimo piano)

Di Claudia Livia Bazu

Lo scrittore rumeno Petru Cimpoeșu autore di Il santo nell’ascensore

Lo scrittore rumeno Petru Cimpoeșu autore de  “Il santo nell’ascensore”

Certe volte conviene cominciare… con la bibliografia (facile, si tratta di un unico libro): Simion Liftnicul – Roman cu îngeri şi moldoveni

Iasi, Polirom, 2003

Apparso in italiano come:

Il santo nell’ascensore – Romanzo di angeli e moldavi, Roma, Castelvecchi, 2009

Perché voglio parlare di questo romanzo? Perché l’ho tradotto io, ed è naturalmente un’ottima ragione, ma giuro non l’unica. Ecco tutte le altre:

1. Perché il romanzo ha 10 anni e la versione italiana è uscita quattro anni fa, quindi è un modo per mettere in pratica ciò che io credo, che di letteratura non bisogna parlare come di cronaca, soltanto in prima ora, soltanto di ciò che esce quest’anno e poi lasciare che diventi obsoleto. Consumare adesso, esaurire subito, e poi consumare ancora domani, altro, qualcosa di nuovo, comunque sia, purché sembri nuovo, purché non lasci tempo all’anima di rovistare troppo e accogliere, far proprio, radicare, innestare (oppure rifugiarsi nei classici già sanciti, già canonizzati, che ha spesso lo stesso risultato).

2. Perché, a proposito di anima, è mia opinione che in italiano si usi troppo poco, la parola anima… O forse no, è che quando la si usa sembra una parola d’altrove, un po’ formale, un po’ alta, un po’ a voler puntare chissaddove… comunque c’è qualcosa che mi manca o mi stona, abituata come sono a suflet, in romeno, che è vicino e quotidiano, e si usa per molte espressioni correnti. Suflet è una parola confortevole, che prende le forme di chi la usa, come una poltrona: scontata, calda, viva, familiare. E sono così, anime “casalinghe”, coi bigodini in testa, senza cosmetizzazione e senza enfasi, i personaggi di questo romanzo corale, in cui Simion, “il calzolaio del piano terra”, dopo aver ricevuto una misteriosa rivelazione angelica, elegge l’ascensore a luogo di ritiro spirituale, impedendone così l’uso agli altri condòmini. Diventerà presto maestro e consigliere, pratico e spirituale, di tutti coloro che andranno a parlargli, al di là della porta ermeticamente chiusa. All’inizio, ci andranno infatti per convincerlo a uscire, poi sempre più per voglia, per bisogno, perché Simion ha la storia, la “parabola” giusta per chiunque. Ed è un fatto di intimità che accade ogni volta tra i due. Scorerndo il romanzo, ritrovo una differenza che io sento fondamentale tra la cultura italiana e quella romena: è il maggior grado di intimità dei romeni con… l’intimità.

3. Perché, intimamente, dunque, ci si scopra fratelli di queste anime nell’arte di lamentarsi, di essere ingordi, un po’ ipocriti, un po’ incoerenti, un po’ incuranti e malgrado tutto viventi, svogliatamente, disperatamente viventi in una crisi che non dura solo da qualche anno a questa parte, e non è cosa che possa passare come una malattia, perché non è un disequilibrio del sistema, ma la sua naturale evoluzione… Perché non ci vuol niente per leggere La parabola del ritorno di Gesù sulla terra per candidarsi alle elezioni e della sua completa disfatta come se fosse ambientata in Italia…Perché per la stessa ragione cambierei tricolore anche alla travagliatissima fondazione del Partito degli Indecisi (non dico altro ma sarei curiosa se vi viene in mente qualcosa, così, solo dal nome…) che da il titolo al quarto capitolo.

4. Perché io riconosco nel gomitolo di assurdo e paradosso che pesò sui destini romeni post-rivoluzionari i lineamenti del cugino gemello di quello italiano contemporaneo. A fronte però di terremoti epocali che hanno realmente capovolto il destino della Romania e di tutto l’Est (e se non vi fu la caduta formale di qualsivoglia istituzione, come in Albania, vi fu lo sbrindellamento sostanziale di tutto il tessuto sociale) tutto viene preso molto morbidamente, con spirito moldavo, sornione e acuto come lo sguardo di un gatto. Sì, sornione è la parole chiave. Dello spirito moldavo e di questo libro.

ascensore

Ascensore con il giudizio universale

Que voulez-vous, nous sommes ici, aux portes de l’Orient, où tout est pris à la légère...” Questa frase è attribuita a un diplomatico francese che un secolo fa ebbe a mediare una spinosa questione tra l’allora Piccola Romania (con questo nome si indica la Romania prima dell’Unione con la Transilvania, realizzata dopo la prima Guerra Mondiale: la Moldavia invece c’era, e c’era tutta, quella che oggi è ancora Romania, e quella che è invece la Repubblica Moldava) e un Grande Industriale Francese. E con queste parole s’intendeva un giudizio pesantemente negativo. Ma stacchiamole dallo sguardo occidentalocentrico, di stampo coloniale, e rileggiamone innanzittutto la prima parte: “Tout est pris”. Tutto è preso, accettato. Così com’è. Incamerato nel giocoso senso dell’assurdo di una storia che ha sempre sballottolato di qua e di là una piccola nazione circondata da grandi imperi.

E torno di nuovo all’Italia, perché stiamo parlando della traduzione in italiano di quel libro, che deve parlare a chi parla italiano…Al senso dell’assurdo e del grottesco che attanaglia, anche qui. Ma non è considerato naturale parte del vivere.

Perché leggendo il romanzo mi è venuto in mente che prendere un po’, non tutto, e solo in prestito, quello sguardo sornione per guardare l’Italia non farebbe mica male. Un’accettazione che ci porti umanamente e sanamente a riconoscere – senza enfasi, amarezza, indignazione, vergogna, che sono un po’ teatrali e peggio ancora, fonti di impotenza, e farlo invece con spirito pratico, lucido e ludico – di gridar spesso miseria per gridare la nostra pigrizia, con un pizzico di umanissima mala fede. Riconoscerla, guardarla in faccia dritta dritta, con ironia non castigante, à la légère, ma non superficialmente, però senza l’accannimento aggressivo che ci porta a dover trovare una colpa e infierirci: all’esterno, cercando un Capro espiatorio da attaccare, o in noi, e autoflagellarci, che è un altro modo per non risolvere le cose.

Che i romeni risolvono? Nossignori, i romeni aggiustano, aggiustano tutto, ma risolvere, a casa loro, non risolvono mai, questo almeno ci dice l’autore. Ce lo racconta nella Parabola del Fil di Ferro. Quest’ultimo rappresenta il dono di Dio al popolo romeno, il quale si era presentato in ritardo alla consegna dei Doni alle Nazioni, quando erano finiti tutti quelli più preziosi. E’ l’arte di aggiustare le cose che si rompono, si rompono in continuazione, di farle sempre andare avanti, sempre malridotte, ma sempre rimesse insieme con l’immortale, insostituibile fil di ferro.

Un po’ di autoflagellazione, ecco, la fanno anche loro, ah, è così bello non essere soli… Ma, fuor di sarcasmo, è così utile vedere che è un problema più comune, più naturale, più umano, di quando non sospettiamo quando ci percepiamo, chiusi, da soli, in un destino isolato. Ed è anche utile vedere come gli altri declinino diversamente il loro fardello, che, pur essendo forse più pesante, è preso più… alla leggera, perché nella differenza c’è l’indicazione per l’uscita.

Il santo nell’ascensore in lingua originale

Il santo nell’ascensore in lingua originale

5. Perché poi ci sono, semplicemente, esilaranti e dissetanti, fatti di passione (anche, e soprattutto, nel senso di cose patite) individuali e collettivi: matrimoni, adulteri, funerali, estrazioni al lotto e inaugurazioni di monumenti cittadini, che finiscono sempre in balcanica tragicommedia…

 6. Perché infine mi voglio prendere la soddisfazione di dire che questo, che arrivò a me per caso da tradurre, è un buon romanzo, molto buono e molto profondo, che potrebbe durare decenni. Dico anche che avrebbe potuto essere un grande romanzo (e le traduzioni in sette lingue europee lo dimostrano) se l’autore non ci avesse voluto insegnare troppe cose. E il suo intento pedagogico-dimostrativo non trapelasse un po’ troppo. Insomma, a volte si vedono i fili… e la magia un po’ si sfilaccia, ma il filo si riannoda con prontezza alla pagina successiva. Perché qualche volta pilota troppo i personaggi, e troppo li fa filosofare… ma lo si può perdonare perché offre qualcosa di sostanzioso, affidabile e sorprendente al contempo, e vale la pena di leggerlo. Con occhio sornione, e piano, perdonandosi, con leggerezza, se a volte ci scappa di saltare qualche paragrafo: sì, si può, è ammesso, è concesso, fa parte del patto non scritto tra lettore e scrittore, che ha preparato tutto da solo, e non è lì per guidare il suo racconto secondo i ritmi di ascolto dell’altro, come fa il narratore orale. Sì, si può, anche se stiamo leggendo Proust (…beh, soprattutto se stiamo leggendo Proust).

Con calma, non oggi, non domani, anche tra un paio d’anni, perché offre uno spirito, un’anima, (sic!), un timbro del vivere che può far la differenza quando si sta sull’orlo della crisi (di soldi, di nervi, esistenziale, matrimoniale, strategica e finanziaria mondiale… fate un po’ come vi pare!).

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