5. Letture d'altrove

Via delle Parole arabe, numero Zero.

Rimontare alle radici (Jidr), risalire alla fonte di tutto :  a quelle tre lettere che giustapposte l’una accanto all’altra aprono mondi e costruiscono universi (Kawn), poi distillare le percezioni, le associazioni di idee,  i sapori e le fragranze di cui le parole sono cariche. Ecco cosa fa Claudia Avolio, “Una ragazza appassionata di radici e parole arabe”  come ama definirsi. Dalle “Pagine” di Arabpress, in una rubrica battezzata “Dentro l’arabo” Claudia Avolio penetra dentro le parole (Kalimat) per poi riconsegnarcele sotto vesti nuove, svolazzanti come farfalle (farashat) in un approccio originale che mischia la semiologia alla semiotica e la linguistica alla psicologia. Oggi l’abbiamo “sequestrata” facendola accomodare nella “stanza degli ospiti” e “costringendola” a iniziare il viaggio (Safar) dallo Zero (Sifr).

Rabii El Gamrani

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Flying Letters, dellla calligrafa marocchina Faten

Flying Letters, della calligrafa marocchina Faten

 Di Claudia Avolio.

Zero, sì. Non solo perché lo zero ce lo hanno donato gli Arabi (ṣifr, origine di quella bella parola che possiamo usare, cifra). Questo civico Zero in cui sento di trovarmi è un luogo e un modo di guardare la realtà: porsi al centro e gettare lo sguardo tutto intorno tracciando raggi. Ogni punto genera una circonferenza, i centri si moltiplicano, l’intersezione dà vita alla simultaneità: ogni possibilità è contemplata. Questo per me avviene al cospetto di una parola araba. Basta entrare in una sola, semplice radice per sentirsi parte di uno smottamento semantico di assoluto stupore. Il dizionario di arabo allora smette di sembrare un intricato viluppo in cui si rischia d’impigliare le dita del pensiero. Si trasforma in reti remote che portano alla superficie oggetti insperati, creature pulsanti che lungi dal perire appena fuori da quell’acqua di carta tornano anzi a respirare: d’un tratto rivivono, al solo passaggio di occhi curiosi che le hanno scovate.

Io, ricordo, non avevo tanta voglia di usare il vocabolario, neppure quello d’italiano. Le parole che cercavo sostavano pochi momenti nella mente, poi scivolavano via. Preferivo chiedere a mio padre il significato delle parole, e lui si stupiva: “Hai il vocabolario – sfruttalo!”. Ma a me restano più impresse, gli dicevo, se a spiegarmele è una persona. Poi ho dovuto studiare un libro meraviglioso che si intitola Il pensiero islamico contemporaneo (2009, ed.Il Mulino), in cui Massimo Campanini descrive le riflessioni di numerosi pensatori arabi. In ogni pagina trovavo almeno sei (splendide) parole che non conoscevo o confondevo con altre: credo sia stato quello il momento in cui è nata la mia passione per i significati. All’inizio era legata soprattutto all’italiano, e poi è stata un’estensione naturale: le radici arabe hanno preso il sopravvento.

Con le prime traduzioni dall’arabo ci si sente sperduti, almeno per me è stato così: si affronta un testo e non si individuano le parole, si sente un suono familiare ma non si riesce a ricordare a cosa sia legato, a quale sfera di significati. Ci si confonde e scoraggia. Sembra quasi che il testo sia ostile, che la lingua ponga ostacoli troppo ardui da superare. Ma le radici arabe non sono una barriera, sono semmai una grossa opportunità. Una sequenza di tre semplici consonanti dà vita a cinque, dieci, venti parole (e non è finita).È come avere una sola chiave che mi consente di aprire venti porte! Ma soprattutto una lingua non è mai qualcosa di statico, preconfezionato. Attraverso le parole arabe ho sentito come davvero ognuno possa trovare qualcosa che gli somiglia, che gli appartiene, nei significati che offrono e negli innumerevoli spunti che riescono a suscitare.

Uno dei primi commenti ad avermi colpito lo ha lasciato Enrica Schivardi. Lei ha usato un’espressione molto significativa per descrivere Dentro l’arabo: “Una generazione di arabisti che non tiene questa lingua e questa cultura solo per sé”. Trovo perfette le implicazioni di quel plurale che ha usato, non solo perché non ho nulla a che spartire col mio ego che può starsene tranquillo ed isolato dove e come crede, ma ancor più di questo perché ogni volta che m’interesso di una parola araba vorrei potesse parlare da sola, so anzi che è lei a parlare e non io. O è lei, o siamo tutti noi: in ogni caso, plurali. Una parola araba con gli echi in cui riesce a disciogliersi, le linee lungo le quali incanala i suoi suoni, le sue suggestioni. Quel plurale invita tutti a far emergere i propri pensieri, rende esistenti sentieri invisibili che pure già esistono: si tratta di percorrerli, per formarli da sé. Tonino Guerra una volta ha detto: “Le immagini che sono dentro la parola sono infinite, la parola è quella più piena di cinema che ci sia al mondo”. Ecco, che ognuno possa sentire qualcosa di suo nelle radici arabe e nelle immagini “più piene di cinema” che ogni parola araba gli metterà davanti. Io, dal mio civico Zero, provo a offrire qualche raggio a chi vorrà afferrarlo e proseguire.

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