1. Le parole sono importanti!/Anche questa è Torino

Tra le braccia del mio “libico” lasciatemi sognare

Mi allontanai discretamente per rispetto, lasciando Lina piangere sulla spalla di sua madre e ripetere a bassa voce, come fosse un mantra, la frase: «Anche se è solo un sogno, lasciami viverlo in pace, mamma! Lasciami viverlo in pace, lasciami…».

D’un colpo quella donna minuta, e dalla faccia segnata dal tempo e dalle sofferenze, acquistò ai miei occhi una bellezza smisurata. Amava. Ed era commovente vedere come in quella personcina a cui la vita non aveva mai regalato niente, l’amore era riuscito a far riaffiorare ciò che in ognuno di noi si cela di più bello e più nobile.

 

Lina

Iscritta all’anagrafe come Pasqualina, Lina è una ragazza nata e cresciuta nei quartieri Nord di Torino. Quelli germogliati quando il miracolo industriale era già in declino. Mamma Fiat non reclutava più e le ultime ondate di meridionali arrivati in quegli anni vennero a gonfiare le fila di un proletariato già precario e disorientato. Precarietà che da lì in poi sarebbe diventata la norma.

Anche se in vita sua ha raramente visto il paese di Niscemi, che diede i natali ai suoi, aveva un accento come se fosse cresciuta lì, nel cuore della Sicilia.

La vita non le ha risparmiato nessuna prova. Unica femmina in mezzo a 4 maschietti in un quartiere che si era portato con sé tutto il maschilismo e il patriarcato della profonda campagna meridionale. La povertà, un padre violento, il disprezzo delle compagne a scuola, l’incomprensione degli insegnanti, il fallimento scolastico, gli amori sbagliati, la violenza, l’alcol… poi l’eroina e la discesa all’inferno della tossicodipendenza. Niente. Non le è stato risparmiato proprio niente. E quando l’ho saputo mi sono chiesto: come hanno fatto, due spalle così magre a portare il peso di tutta quella sofferenza?

L’ho vista una prima volta nell’ufficio di una amica, direttrice di una cooperativa che si occupa di reinserimento lavorativo di donne in difficoltà: casi sociali, ex detenute, ex tossicodipendenti…

Entrò armata di secchio, bastone e moccio per pulire il pavimento, credendo l’ufficio vuoto. Ma dopo essersi scusata del disturbo, rimase a chiacchierare un attimo. Scherzava e rideva. Era di buon umore.

– «Che simpatica – dissi, dopo la sua uscita- è nuova?»

– «Purtroppo no. -mi rispose l’amica – Lina entra e esce qui da noi da anni. Alcol, tossicodipendenza, piccoli guai con la giustizia… Quando la crediamo ormai uscita dal tunnel, scompare e ricade in uno dei suoi gironi infernali. È uno di quei casi che ci fanno persino dubitare dell’utilità del nostro lavoro. Peccato… Ha un cuore d’oro.»

– «Forse è proprio per quello?» – chiesi, senza aspettarmi una risposta.

Dopo quel giorno ebbi modo di incontrarla qualche volta. Sempre in luoghi che hanno a che fare con l’assistenza: associazioni, centri, comunità… Ma da circa un anno, i nostri incontri si sono fatti più frequenti e diversi. Nel senso che sono cambiati i luoghi. Ci incrociamo ormai nelle feste, nelle serate, spettacoli, conferenze… in tutto quello che ha a che fare con l’intercultura e l’immigrazione. Anche la Lina che vedo ormai non è più quella di una volta. È più gioviale e dinamica che mai, ma è anche più carina, sembra ringiovanita. La sua faccia, una volta magrissima, si è rimpolpata. Veste “sexy”, le sue mani sono curate, le unghie dipinte e decorate. I suoi capelli sono ben curati e hanno un taglio che le rende finalmente giustizia. Sembra più giovane e felice. E tutto ciò è da quando ha conosciuto Madih.

Madih

Madih ha anche lui avuto una vita che definire difficile sarebbe poco. In qualche modo, con Lina ha molte cose in comune. Anche lui è nato straniero nel proprio paese, figlio di contadini poveri dell’oasi di Qasr Farfara emigrati al Cairo per seguire, anche loro, un miraggio industriale che durò poco. Anche lui era preso in giro a scuola per il suo accento ed era chiamato “ganubi”, meridionale.

Il suo padre faceva, come molti “ganubi”, il portinaio in un palazzone di Al Zamalik, il quartiere benestante della capitale. Un lavoro che con le mance, il lavaggio delle macchine e qualche corsa di qua di là, permetteva alla famiglia giusto di pagare l’affitto del monolocale in cui si accatastavano in 8 e di non morire di fame. Ma un giorno, perché rifiutò di eseguire qualche richiesta umiliante da parte di un pezzo grosso, il padre perse anche quel lavoro.

A quel punto il loro destino era segnato o l’emigrazione di nuovo o la miseria assoluta.

Tutta la famiglia tornò a Qasr Farfara, dove il nonno aveva ancora una vecchia casetta di pietra e fango. E pochi giorni dopo l’arrivo in paese, il padre accompagnato da Madih, il primogenito, si imbarcava su un vecchio camion di contrabbandieri in direzione della vicina Libia.

In Libia, padre e figlio lavorarono duro e subirono tanto, ma con coraggio e dedizione ogni mese sono riusciti a mandare qualche soldo per sostenere la famiglia. Il padre però un giorno si ammalò e dovette tornare a casa. Ma Madih senza scoraggiarsi continuò la strada da solo.

Da qualche anno la vita di Madih era migliorata. Da semplice garzone era ormai diventato uno dei più giovani “Maalem shawarmaji”, come per dire: maestro kebabbaro. Una specialità degli egiziani in Libia. E lui era abbastanza bravo e i proprietari libici delle rosticcerie cominciavano a contenderselo. Il suo stipendio aumentava regolarmente. E ormai dal semplice sostentamento, la famiglia era passata al risparmio. Riusciva a mettere qualcosa da parte per costruire una casa di mattoni… Il sogno di ogni migrante era a portata di mano. Ma quello di Madih fu interrotto dalla rivoluzione libica.

Quando cominciarono i disordini, gli egiziani che erano nelle grandi città capirono presto la dimensione dell’evento e fugirono in grandi numeri, ognuno verso la frontiera più vicina. I più fortunati erano a Est e entrarono subito in Egitto gli altri si rifugiarono in Tunisia e in Algeria, in attesa del rimpatrio. Madih che era in una piccola località della tripolitana, che era rimasta abbastanza calma all’inizio, non si accorse di niente e continuò a fare la vita di sempre con la speranza che tutto sarebbe rientrato presto in ordine. Invece, la fine della storia la conosciamo tutti e Madih si ritrovò a vagare in cerca di una via d’uscita in un paese in preda al delirio e alla violenza, con l’aggravante di avere la pelle nera e quindi di essere scambiato per un “mercenario” di Gheddafi. Così si ritrovò a nascondersi inseme ad altri neri, cittadini di vari stati africani, anche loro in cerca di una via di fuga. E un giorno senza troppo capire come e perché si trovò su un una specie di rudere galleggiante diretto verso Lampedusa.

A Lampedusa gli fu chiesta la sua identità. Qualcuno gli sussurò che non doveva assolutamente presentarsi come egiziano, altrimenti sarebbe stato rimandato a casa, subito. Lui pensò che, visto che aveva rischiato la vita per arrivare fin qua, valeva la pena provare a restarci e si presentò come cittadino libico di pelle nera, fugito perchè perseguitato dai nuovi padroni del paese. “E’ solo una mezza bugia. -pensò tra sé e sé- a parte la cittadinanza, tutto il resto è vero.”

Dopo la lunga attesa, l’incertezza, la trasferta a Catania, poi a Manduria, i campi profughi e le mille umiliazioni, alla fine arrivò in un centro per richiedenti asilo della periferia di Torino…

Nel nuovo centro, tra i vari operatori, reclutati in fretta da una cooperativa sociale sull’orlo della bancarotta che ha trovato nei “libici”una specie di manna celeste, c’era a lavorare, in cucina, una ragazza molto magra dagli occhi tristi e dal cuore d’oro chiamata… Lina.

Lina e Madih

Dopo pochi giorni erano già amici. Meno di nove settimane dal suo arrivo, Madih lasciava il centro per trasferirsi nella minuscola soffitta di Lina. La loro relazione lasciò tutti a bocca aperta. Madih parlava solo dialetto egiziano ed era quasi analfabeta. E Lina… Lina, che anche lei non era un luminare, in più del suo improbabile italiano siculo torinese  sapeva solo qualche parola di dialetto di Niscemi. Tutti si chiedono: come fanno a capirsi, questi due? Ma loro si capiscono bene. Forse perché parlano un altro linguaggio, non udibile all’orecchio.

Lei, in lui, ha trovato un uomo bello, giovane e dolce che non la disprezza e non la maltratta. Madih è il suo riparo dalla solitudine che mangia l’anima. Lui, con lei, ha trovato casa, affetto e sicurezza. Lina per lui è la strada verso una vita migliore. Erano due naufraghi in un mare sempre in tempesta ora sono ognuno per l’altro l’isola della salvezza.

Lei lo portava ovunque ci fosse una serata dedicata al mondo arabo, una cena interculturale, una mostra. Aveva ritrovato il gusto di vivere e glielo voleva comunicare anche a lui. Lui era smarrito. Spiccicava poche parole d’Italiano, capiva ancora meno  e troppe cose intorno erano nuove per lui. Ma con lei accanto si sentiva al sicuro.

Mi piacque molto il loro rapporto una sera che eravamo insieme ad una “festa” organizzata da una associazione marocchina. Una di quelle nate intorno alle sale di preghiera. Avevano messo sul lettore delle canzoni religiose, dal ritmo monotono e lancinante, ma ad un certo punto partì una con un ritmo un po’ più trainante. Lina si alzò di scatto lanciando un grido di gioia e con un foulard intorno alla vita si buttò in mezzo azzardando qualche improbabile passo di danza del ventre imparato Dio sa dove. La gente intorno era imbarazzata ma non osò dire nulla. Madih si avvicinò a lei e poggiò dolcemente la mano sulla sua spalla per trattenerla. «La ya Lina. La. Ma yisahish. No Lina,no. Non si fa.», disse in arabo.

Lina alzò gli occhi e capì tutto dal suo sguardo. Poi cercò conferma guardando nella mia direzione. « Ma non si può? ». «No- riposi io, abbassando la voce per non imbarazzarla ulteriormente – è un canto religioso.» allora si sbrigò di nascondersi dietro a Madih per togliersi il foulard mettendo la mano contro la bocca, come una bambina colta a rubare qualche caramella.

Lasciatemi sognare

Quel giorno ero seduto in quel corridoio, quando entrarono lei e la madre. La loro discussione era già animata per ciò non notarono nemmeno la mia presenza. Si sedettero anche loro.

– «E’ un maomettano, Lina, sono diversi. Loro le donne non le rispettano. Prima o poi si metterà a picchiarti.»

«Perché, mamma? Papà invece non ti picchiava, a te? Non ci picchiava tutti quanti? Non è forse per lui che abbiamo avuto una vita di merda, tutti quanti? E i miei fratelli non mi hanno picchiata? E ii fidanzati italiani non mi hanno forse fatto del male, ognuno a modo suo?»

«Ma questo è diverso. È troppo giovane per te. Lo vuoi capire che ti sta utilizzando? Appena avrà i documenti ti lascerà…»

« Lo so, mamma. Lo so. Prima o poi mi lascerà. Anche lui. Tutti mi lasciano, prima o poi. È troppo bello, troppo giovane per me. So tutto mamma. Tutto! Quando mi lascerà tornerò sola come sempre, probabilmente tornerò a bere, forse anche a farmi… di nuovo. Lo so. Ma per ora so soltanto che non ho mai avuto un uomo così bello e così dolce, tutto per me…»

« Ma per quanto?»

« Fosse anche per un solo giorno, mamma, ne vale la pena. Lo so che prima o poi mi lascerà. Ma per ora quello che conta è che siamo insieme e per il momento stiamo bene. Anche se è solo un sogno, lasciami viverlo in pace, mamma! Lasciami viverlo in pace, lasciami…».

2 thoughts on “Tra le braccia del mio “libico” lasciatemi sognare

  1. Che il cielo protegga il tuo sogno , Lina, fino a che tutti vedranno che è una realtà : l’amore cambia colui o colei che ama e con questo l’intera vita

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